Una pasticceria per ricominciare

Schermata 2016-05-12 alle 18.21.24Lasciate i pregiudizi all’ingresso, insieme a chiavi e cellulare. Potete entrare solo voi, niente borsa, niente telefono, niente di niente. Percorrete i lunghi corridoi, freddi e illuminati dove quasi riecheggia il rumore dei vostri passi. Ci sono tante finestre e alcune porte da oltrepassare, ma qualcosa ci racconta che non siamo in un edificio qualunque: la luce passa attraverso una rossa griglia di metallo, da cui l’aria entra, ma nulla potrebbe uscire. Anche le porte sono in ferro rosso e massiccio e si aprono solo con il benestare della guardia.

Siamo al Carcere Due Palazzi di Padova, per visitare una realtà più unica che rara, presa proprio all’apice del suo lavoro, in periodo natalizio, dove come in ogni pasticceria il re indiscusso è il panettone. Per svelare subito qualche numero, l’anno scorso ne hanno fatti 74.000. Non abbiamo sbagliato gli zeri, sono davvero tre.

La realtà di cui stiamo parlando è decisamente fuori dagli schemi.   è una pasticceria nata negli anni ’90 a Padova totalmente in un altro contesto e trasferitasi all’interno del carcere nel 2005 con la vincita di un bando per la riqualificazione di alcuni locali del penitenziario. È Gestita dall’omonima cooperativa che coordina differenti iniziative all’interno del “Due Palazzi”, rivolte all’educazione e al riinserimento della persona nella società attraverso il lavoro.

È una pasticceria che è molto di più di un comune laboratorio. I dipendenti sono tutti reclusi, al di là di Matteo, Alessandro, Lorenzo e Massimo, i quattro pasticceri esterni che coordinano e seguono la loro attività.

Nella brigata sono in 22. Non lavorano contemporaneamente e sono divisi a squadre part-time per permettere a più persone di lavorare, ma i ritmi sono quelli di ogni pasticceria: la sveglia suona presto, alle 4 si infornano i primi croissant per servire catering e locali sparsi sul territorio e il lavoro prosegue anche fino alle 19 nei periodi di punta.

Sotto Natale sono 1000 i panettoni che cuociono ogni giorno, classici e ai gusti più ricercati come cioccolato e fichi, birra, e l’ultimo inserito quest’anno: passito dei colli euganei al fior d’arancio. Tutti esclusivamente con lievito madre.

Ma i lievitati sono solo una parte di una produzione che a ogni fine giornata conta 400 chili di pasticceria fresca e 300 di biscotti. La quantità rispecchia la qualità: ed è proprio questa il loro biglietto da visita in grado di sconfiggere alcuni pregiudizi che possono incontrare sul cammino, tanto che nel 2013 l’Officina Giotto è stata premiata come miglior pasticceria dell’anno dal Gastronauta.

È quasi un meraviglioso paradosso se si pensa che i pasticceri sono tutt’altro che formati quando iniziano a mettere le mani in pasta. E che il percorso per renderli pasticceri con la P maiuscola è ancor più complicato che nella normalità. Ciò che arriva al cliente finale, organizzazioni e aziende sempre più importanti come la recente collaborazione avviata con gli hotel Sheraton, è un prodotto di alta gamma. Ma ci si è mai domandati cosa ci sia dietro quel croissant fragrante e quel profumato panettone? Quante barriere anche solo concettuali ci siano nell’aver cambiato vita e avere adesso un mestiere tra le mani? Quanto possa essere complesso per i chi intraprende il percorso e per chi li segue?

Eravamo troppo curiosi e siamo entrati per chiederlo ai ragazzi stessi. Per capire non solo la realtà di pasticceria, ma ancor di più come loro la vivono e ciò che per loro significa. Innanzi tutto la selezione è molto rigida e passa attraverso un ufficio sociale che ne stabilisce l’idoneità psicologica. La grandiosità del progetto è proprio il considerare la persona oltre le sue azioni passate, cercando di recuperarla a livello sociale e offrirle una possibilità di riscatto. È la vera espiazione della pena perché “spesso i detenuti passano vent’anni reclusi ma nemmeno un anno a scontare la pena”. Perché non è la violenza che recupera violenza, perché a stare nelle cellette ci si intorpidisce e si consegue un “master in delinquenza”, dove ognuno cerca di sentirsi meno peggio rispetto al compagno che ha commesso il crimine peggiore e cerca di imparare nuovi “trucchi del mestiere”, pronto a sfruttarli appena fuori dalle sbarre.

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Il lavoro offre questa possibilità, tanto che si considera che la recidiva sia del 2%, contro circa un 90%… Percentuali strabilianti in un panorama dove su circa 60.000 detenuti, quelli coinvolti nel lavoro sono solo 800 in tutta italia, di cui 120 qui a Padova.

Per tutti noi lavorare è normale, ma parlando con i ragazzi ci siamo resi conto che nulla va dato per scontato. C’è chi di lavoro non aveva mai sentito parlare, tantomeno dell’avere orari e un responsabile sopra di lui che gli dicesse cosa fare e cosa no. “Perché il linguaggio del carcere è la delinquenza, mentre qui è diverso, ti confronti e ti relazioni”. È un’impresa ancor più ardua cercare di capire il valore dei soldi, che “prima si ottenevano senza la minima fatica, mentre ora l’impresa eccezionale è pensare di vivere con mille euro al mese”. Stupisce la naturalezza con cui ce lo raccontano, ancor più che quello che ci dicono. Hanno gli occhi di un bambino che scopre il mondo a ogni passo, e probabilmente in questa realtà non è così diverso.

Il lavoro dell’Officina Giotto è un percorso a tutto tondo: non è semplicemente lavoro, ma è un sentiero di educazione dove si comprende disciplina e orari, l’avere un capo, il valore dei soldi e della collaborazione. Si carpisce il valore dell’amicizia, quella vera e non per affari, e che c’è ben altro rispetto al modo di vivere attuato sino ad ora. Dove si comprende la soddisfazione di creare qualcosa e si impara un mestiere. Che ti permette di cambiare vita, di emozionarti per un complimento sul dolce fatto, di aver voglia di imparare sempre più di un mondo che prima si ignorava esistesse.

“Appena arrivato volevo solo far passare il tempo, perché mi permetteva di stare qualche ora fuori dalla cella, adesso sono passati sette anni e il lavoro è la cosa che ho più a cuore. Perché gli anni passati non me li restituisce nessuno. Ma questo è un allenamento verso la libertà.”

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